In Francia, il prezzo medio dei biosimilari è inferiore del 44% rispetto a quello praticato nei principali Paesi europei – Germania, Spagna, Italia e Regno Unito. A riportarlo è Le Quotidien du Pharmacien, che rilancia i dati elaborati dal GEMME, l’associazione francese dei produttori di generici e biosimilari. Secondo l’organizzazione, questa situazione compromette la sostenibilità del comparto.
Nel 2024, il prezzo medio ex-factory per unità dispensata di un biosimilare in Francia è di 212 euro, contro una media di 377 euro nei quattro Paesi di riferimento: 434 euro in Germania, 388 in Spagna, 367 nel Regno Unito e 319 in Italia. L’analisi ha incluso tutte le molecole attualmente dispensate nelle farmacie territoriali francesi, con l’eccezione dell’insulina aspart.
Per il GEMME, si tratta di una vera e propria «svalutazione del valore del biosimilare in Francia», aggravata dall’applicazione della clausola di salvaguardia – un meccanismo che impone alle aziende farmaceutiche un contributo economico quando la spesa pubblica supera determinati tetti prefissati – che, secondo l’associazione, «indebolisce il modello economico invece di favorirlo». Il GEMME – che aveva già chiesto l’esenzione per i generici e i farmaci ibridi – estende ora la richiesta anche ai biosimilari.
Anche sul fronte delle quote di mercato, la Francia appare in ritardo: i biosimilari rappresentano il 35% del totale, contro una media del 60% nei Paesi considerati. Per colmare questo divario, le ultime due leggi di finanziamento della Sécurité sociale hanno introdotto misure per rafforzare la sostituzione in farmacia. Il GEMME invita ora il governo ad adottare un tetto massimo «ragionevole» per gli sconti praticati in farmacia, sottolineando l’urgenza di reinvestire i risparmi derivanti dall’uso dei biosimilari nel sistema sanitario, «senza svalutarne ulteriormente il valore».
In Italia, anche Egualia – l’associazione che rappresenta i produttori di equivalenti, biosimilari e farmaci a brevetto scaduto – ha segnalato criticità legate all’attuale modello di approvvigionamento pubblico, che secondo l’associazione è «frammentato su base regionale e guidato esclusivamente dal criterio del massimo ribasso», con il rischio di compromettere la sostenibilità e la concorrenza nel settore.