Aumentano le farmacie che fanno ingrosso

I dati aggiornati del Ministero dicono che da giugno sono più di una settantina i titolari che hanno ottenuto l'autorizzazione a svolgere attività di distribuzione. I risvolti del fenomeno

Aumentano le farmacie che fanno ingrosso

Complice l’erosione inarrestabile dei fatturati Ssn, continua a crescere il numero delle farmacie che si procurano il permesso per attività di distribuzione intermedia. Per avere una conferma basta andare a scorrere l’ultimo elenco aggiornato del ministero della Salute sui grossisti autorizzati: dal giugno scorso sono più di una settantina le farmacie che hanno chiesto e ottenuto il permesso per svolgere attività di distribuzione, una cifra che porta ben oltre quota 250 il totale delle imprese dalla croce verde con un piede nell’ingrosso. Questo significa che, ormai, nel comparto si contano più farmacie che distributori veri e propri (tra cooperative di Federfarma Servizi e aziende di Adf), anche se per giro d’affari i secondi continuano a restare abbondantemente in testa.
Inutile dire che questa “tracimazione” tra segmenti distributivi crea qualche preoccupazione nelle sigle della filiera, soprattutto per la relazione che esisterebbe tra tale fenomeno e quello delle carenze: da quest’inverno, anzi, si registra una recrudescenza nei mancanti e nei contingentamenti tale per cui Federfarma ha già chiesto di riaprire il tavolo dal quale un paio di anni fa spuntò il protocollo d’intesa sul monitoraggio delle carenze. Intanto però le farmacie che si buttano nell’ingrosso con regolare autorizzazione non violano alcun divieto: una sentenza della Corte di giustizia europea non recentissima, infatti, ha chiarito che il titolare fornito di permesso può tranquillamente svolgere attività di distribuzione. E non è neanche vero che la farmacia autorizzata all’intermediazione lavora soltanto con l’estero: un breve giro tra i farmacisti presenti nell’elenco del Ministero e si scopre che parecchi di loro rivendono anche a cliniche veterinarie, case di cura o strutture private, e si tratta principalmente di farmaci ospedalieri. Anzi, per qualcuno è persino l’attività prevalente, con le esportazioni che coprono una fetta minoritaria del traffico. E non è neanche corretto chiamarle esportazioni, perché a parte qualche titolare organizzato in modo raffinato, gli altri si limitano a rivendere ai grossisti che di parallel trade vivono veramente.
Il farmacista che volesse “buttarsi” nell’intermediazione, poi, deve considerare che occorre un investimento iniziale non proibitivo ma comunque significativo: innanzitutto serve un magazzino autonomo, quindi o c’è spazio a sufficienza per dividere quello della farmacia oppure ne va preso uno nuovo; poi va rispettato l’obbligo di legge del 90% delle referenze, il che costringe a trattare qualche stupefacente almeno e quindi rispettare le norme relative alla loro gestione, per non parlare di quelle relative alla buona conservazione. Ci sono ancora le disposizioni sulla tracciabilità dei medicinali, che al contrario di quelle rivolte alla farmacia impongono la registrazione dei lotti in entrata e in uscita, con attrezzature dedicate. E infine il personale: serve un direttore tecnico, che può anche essere il titolare ma se non si vogliono correre rischi (per esempio errori per eccesso di lavoro tra farmacia e magazzino) è meglio prendere una persona dedicata, e serve almeno un magazziniere, che anche in questo caso non conviene andare a togliere dalla farmacia. Il risultato? In base a quello che emerge dalle esperienze raccolte, chi parte deve mettere in conto che l’investimento iniziale viene recuperato dopo circa 10-12 mesi dall’avvio. Come ha detto un farmacista: «Ti metti a fare il distributore se ti interessa veramente, altrimenti meglio provare a coprire l’erosione della marginalità buttandosi sui servizi in farmacia».

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