Biotech, le terapie made in Italy

Biotech, le terapie made in Italy

«Tre delle sei terapie avanzate approvate in Europa arrivano dalla ricerca italiana. È italiano il primo farmaco a base di cellule staminali, è italiano il primo farmaco di terapia genica ed è italiano il primo farmaco di origine tissutale. Nell’ambito delle biotecnologie stiamo assistendo a un periodo di rinascimento straordinario». Così il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi, in occasione della conferenza dedicata a “Le terapie avanzate: un successo made in Italy”, descrive i primi successi della ricerca biotech nostrana, una ricerca il cui peso degli investimenti in R&D da parte delle aziende è cresciuto di 10 punti percentuale (dal 61 per cento al 71 per cento) negli ultimi cinque anni.

«La terapia genica per il trattamento dell’Ada-Scid, la cosiddetta sindrome dei bambini bolla, una rara immunodeficienza che costringe i pazienti a vivere isolati dall’ambiente esterno; il primo farmaco di ingegneria tissutale a base di cellule staminali per la ricostruzione della cornea dei pazienti con ustioni oculari e la prima terapia cellulare somatica per il trattamento aggiuntivo di leucemie, linfomi e altri tumori gravi del sangue sono le tre innovazioni made in Italy approvate», spiega il presidente del gruppo biotecnologie di Farmindustria Eugenio Aringhieri (nella foto). «Oggi in Italia abbiamo 202 farmaci biotech disponibili e ben 324 prodotti in via di sviluppo».

E di fronte a una produzione industriale in crescita si pone il problema della sostenibilità delle terapie innovative, in tal senso «è necessario rinforzare la partnership pubblico privato, una partnership che deve vedere tutti gli attori interagire in maniera coordinata, dall’industria, all’accademia, alle istituzioni», afferma il direttore dell’ufficio ricerca indipendente dell’Aifa Sandra Petraglia. Un messaggio che «sta finalmente passando – commenta Scaccabarozzi – all’inizio del mio mandato quando si parlava di partnership pubblico-privato nessuno sembrava essere a favore, oggi tutti gli attori del sistema parlano lo stesso linguaggio e parlano di una strategia in questa direzione. Prima c’erano molti pregiudizi sulla ricerca privata, ma non si può prescindere dal rapporto con l’industria privata perché i costi della ricerca sono insostenibili persino per noi. Lo Stato deve premiare l’innovazione, uno Stato che non la premia non è progredito: sono necessari investimenti».

Tuttavia, il futuro non preoccupa solo per una questione di sostenibilità, anche la formazione dei ricercatori del domani è al centro dell’attenzione delle istituzioni e dell’industria: «I farmaci attuali non sono nati oggi ma 10 anni fa, tra alcuni anni ci saranno professionisti con le competenze necessarie a sviluppare e produrre le molecole del futuro?», si chiede il presidente Scaccabarozzi. «In Italia ci vogliono “politiche di retention”, ovvero l’arte di trattenere il personale di valore in azienda», commenta Giovanni Leonardi, direttore generale della ricerca e dell’innovazione in sanità del Ministero della Salute. E a tal fine sono numerose le iniziative proposte dalle stesse aziende e dalle istituzioni. Ne è un esempio il progetto pilota Phd Talent, guidato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur) in collaborazione con Fondazione Crui e Confindustria «si tratta di 132 borse di dottorato industriale che prevede che una parte dell’esperienza lavorativa venga svolta all’interno di un’azienda; la cosa interessante non è solo il numero di studenti che hanno partecipato al bando indetto lo scorso anno, quasi 10 mila, ma soprattutto il numero di imprese che si sono candidate per ospitare questo dottorato, ovvero 980 di cui quasi 500 quelle che si sono qualificate, per 132 borse. Il segnale è chiaro e importante», afferma Oscar Pasquali, capo della segreteria tecnica del Ministro (Miur). La stessa Farmindustria ha cercato «di firmare un protocollo di intesa sull’alternanza scuola-lavoro perché dobbiamo cominciare a pensare a questo, alla formazione dei giovani quando ancora sono nella scuola superiore perché questi sono i giovani che tra cinque anni saranno nelle nostre industrie, nei centri di ricerca e così via», commenta Scaccabarozzi.

Coltivare il terreno per un domani potrebbe portare l’Italia a diventare l’hub europeo della produzione biotech. «Siamo al secondo posto in Europa per numero di imprese innovative sul totale: ben nove su dieci», afferma il presidente del gruppo biotecnologie di Farmindustria Eugenio Aringhieri. «Sono convinto che la leadership sia un obiettivo possibile. Lo dimostrano i fatti: quasi otto miliardi di fatturato, oltre 3.800 addetti, dato a mio parere dirimente, una percentuale di studi clinici biotech pari al 30 per cento del totale promosso nel nostro Paese. Una percentuale ancora più significativa se pensiamo che uno studio clinico farmaceutico su cinque, in Europa, è tricolore».

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