Più forte e autonomo, ma anche spaesato e impaurito. Meno fidelizzato alla marca e ai suoi richiami, ma sensibile a un panorama di valori che va ben al di là del mero risparmio. E’ il ritratto del consumatore italiano secondo l’istituto di ricerche Gfk, che in un convegno organizzato martedì scorso nella sede milanese di Confcommercio ha indagato le dinamiche sociali ed emotive che stanno attraversando il consumo.
Non è casuale che l’indagine arrivi proprio adesso: i dati macroeconomici lasciano effettivamente intravedere i primi bagliori in fondo al tunnel della crisi, diventa allora decisivo per le imprese capire quale consumatore si ritroveranno di fronte nel momento in cui il motore della ripresa comincerà a borbottare. Ebbene, la prima constatazione è figlia non tanto della crisi quanto delle contraddizioni delle società avanzate: negli ultimi 10-12 anni, a un aumento del benessere e delle ricchezze nazionali è corrisposto un aumento dell’insoddisfazione e dell’infelicità individuali. Con la crisi il malessere si è acuito ma i semi erano già stati gettati negli anni precedenti. «Il fatto» ha spiegato Silvio Siliprandi, chief executive officer di Gfk «è che ci troviamo di fronte a un individuo sempre più sotto assedio: il consumatore di oggi dispone di maggiori risorse e di più raffinata consapevolezza, ma è anche sottoposto a pressioni e aspettative crescenti». Ne emerge così il ritratto di un individuo che dispone di più potere e più autonomia rispetto al passato, ma che non vuole essere lasciato solo nelle scelte perché avverte attorno a lui una complessità crescente, che preoccupa anziché rassicurare. «Il prezzo» ha proseguito Siliprandi «resta un elemento centrale della valutazione, ma sarebbe sbagliato pensare al consumatore come a un freddo e razionale calcolatore. Al centro ci sono i progetti, la ricerca di benessere e soddisfazione. Tanto è vero che quasi sempre il risparmio viene reinvestito in altre voci di spesa».
In questo contesto, si inseriscono le trasformazioni in atto nel rapporto tra consumatore e marca. «Non è in crisi la relazione» ha detto ancora Siliprandi «è in crisi il rapporto di delega, la fiducia acritica». In sostanza, siamo di fronte a un processo di “secolarizzazione” della marca che ne relativizza la centralità: «Il consumatore non pensa che tutti i prodotti siano uguali, ma si è reso conto che la marca non è tutto, che vale la pena vivere per altre cose». Si spiegano così le tendenze del momento: il 65% dei consumatori dice di comprare prodotti di marca solo se costano meno (erano il 45% nel 2003) e il 71% afferma di non sentirsi più rappresentato da nessuno dei brand presenti sul mercato. «Siamo nella Post trust era» ha detto Fabrizio Fornezza, vicepresidente di Eurisko «ossia nell’epoca della post-fiducia: la gente non si fida più ciecamente delle marche e delle aziende, ne è delusa perché si aspetta più di quello che danno».
Ed ecco quindi le chiavi di lettura che le imprese dovranno fare loro quando la luce in fondo al tunnel comincerà ad avvicinarsi: «Oggi è sempre più difficile fidelizzare» ha spiegato Fornezza «e paradossalmente, il consumatore tende a non riconfermare l’acquisto di una certa marca anche quando ne è soddisfatto. Semplicemente perché la soddisfazione non basta più: si cercano nuovi contenuti relazionali, l’acquisto non è più un atto funzionale (compro perché mi serve, ndr) ma uno scambio emozionale». Di qui l’affermazione di nuovi vocaboli del marketing come la shopping experience, oppure di nuove culture del consumo come i social network, che soddisfano il bisogno di condivisione e reciprocità.
Per la marca e le aziende, così, la parola d’ordine ora è quella di dare risposta a questi nuovi bisogni:, perché il consumatore cerca nuovi valori: tracciabilità («voglio che mi racconti la storia di produzione, “gli ingredienti”, le persone e le capacità», 25-30% degli italiani), trasparenza («voglio che mi racconti e condivida il suo know how, il cosa e come fa», 30-35%), prossimità («voglio che partecipi e valorizzi il mio territorio (km 0)», 35-40%), efficienza («voglio che sappia fare di più con meno, che mi dia di più chiedendomi meno, che sappia vivere i tempi della sobrietà», >50%), responsabilità («voglio che sappia contenere il suo impatto su ambiente e società», 20- 25%), naturalità («voglio che sappia essere “salubre”: portatrice di benessere alle persone», 35-40%), leggerezza («voglio che sappia essere leggera, aperta e flessibile, nelle forme e nella sostanza», 15-20%).
La strada per recuperare la fiducia del consumatore e costruire un nuovo rapporto passa di qui.
Non è casuale che l’indagine arrivi proprio adesso: i dati macroeconomici lasciano effettivamente intravedere i primi bagliori in fondo al tunnel della crisi, diventa allora decisivo per le imprese capire quale consumatore si ritroveranno di fronte nel momento in cui il motore della ripresa comincerà a borbottare. Ebbene, la prima constatazione è figlia non tanto della crisi quanto delle contraddizioni delle società avanzate: negli ultimi 10-12 anni, a un aumento del benessere e delle ricchezze nazionali è corrisposto un aumento dell’insoddisfazione e dell’infelicità individuali. Con la crisi il malessere si è acuito ma i semi erano già stati gettati negli anni precedenti. «Il fatto» ha spiegato Silvio Siliprandi, chief executive officer di Gfk «è che ci troviamo di fronte a un individuo sempre più sotto assedio: il consumatore di oggi dispone di maggiori risorse e di più raffinata consapevolezza, ma è anche sottoposto a pressioni e aspettative crescenti». Ne emerge così il ritratto di un individuo che dispone di più potere e più autonomia rispetto al passato, ma che non vuole essere lasciato solo nelle scelte perché avverte attorno a lui una complessità crescente, che preoccupa anziché rassicurare. «Il prezzo» ha proseguito Siliprandi «resta un elemento centrale della valutazione, ma sarebbe sbagliato pensare al consumatore come a un freddo e razionale calcolatore. Al centro ci sono i progetti, la ricerca di benessere e soddisfazione. Tanto è vero che quasi sempre il risparmio viene reinvestito in altre voci di spesa».
In questo contesto, si inseriscono le trasformazioni in atto nel rapporto tra consumatore e marca. «Non è in crisi la relazione» ha detto ancora Siliprandi «è in crisi il rapporto di delega, la fiducia acritica». In sostanza, siamo di fronte a un processo di “secolarizzazione” della marca che ne relativizza la centralità: «Il consumatore non pensa che tutti i prodotti siano uguali, ma si è reso conto che la marca non è tutto, che vale la pena vivere per altre cose». Si spiegano così le tendenze del momento: il 65% dei consumatori dice di comprare prodotti di marca solo se costano meno (erano il 45% nel 2003) e il 71% afferma di non sentirsi più rappresentato da nessuno dei brand presenti sul mercato. «Siamo nella Post trust era» ha detto Fabrizio Fornezza, vicepresidente di Eurisko «ossia nell’epoca della post-fiducia: la gente non si fida più ciecamente delle marche e delle aziende, ne è delusa perché si aspetta più di quello che danno».
Ed ecco quindi le chiavi di lettura che le imprese dovranno fare loro quando la luce in fondo al tunnel comincerà ad avvicinarsi: «Oggi è sempre più difficile fidelizzare» ha spiegato Fornezza «e paradossalmente, il consumatore tende a non riconfermare l’acquisto di una certa marca anche quando ne è soddisfatto. Semplicemente perché la soddisfazione non basta più: si cercano nuovi contenuti relazionali, l’acquisto non è più un atto funzionale (compro perché mi serve, ndr) ma uno scambio emozionale». Di qui l’affermazione di nuovi vocaboli del marketing come la shopping experience, oppure di nuove culture del consumo come i social network, che soddisfano il bisogno di condivisione e reciprocità.
Per la marca e le aziende, così, la parola d’ordine ora è quella di dare risposta a questi nuovi bisogni:, perché il consumatore cerca nuovi valori: tracciabilità («voglio che mi racconti la storia di produzione, “gli ingredienti”, le persone e le capacità», 25-30% degli italiani), trasparenza («voglio che mi racconti e condivida il suo know how, il cosa e come fa», 30-35%), prossimità («voglio che partecipi e valorizzi il mio territorio (km 0)», 35-40%), efficienza («voglio che sappia fare di più con meno, che mi dia di più chiedendomi meno, che sappia vivere i tempi della sobrietà», >50%), responsabilità («voglio che sappia contenere il suo impatto su ambiente e società», 20- 25%), naturalità («voglio che sappia essere “salubre”: portatrice di benessere alle persone», 35-40%), leggerezza («voglio che sappia essere leggera, aperta e flessibile, nelle forme e nella sostanza», 15-20%).
La strada per recuperare la fiducia del consumatore e costruire un nuovo rapporto passa di qui.
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