Che cos’è il “quiet quitting”, la tendenza che preoccupa aziende e datori di lavoro

Che cos’è il “quiet quitting”, la tendenza che preoccupa aziende e datori di lavoro

La buona notizia è che, secondo i dati Istat pubblicati il 13 settembre, nel secondo trimestre 2022 gli occupati sono 175 mila in più rispetto al primo trimestre 2022 (+0,8%): diminuisce sia il numero di disoccupati (-97 mila, -4,6% in tre mesi), sia quello degli inattivi di 15-64 anni (-121 mila, -0,9%).

Allo stesso tempo, una serie di fenomeni e tendenze sempre più diffusi negli Stati Uniti, ma anche in Europa, dimostrano che dopo la pandemia sia in atto una crisi del senso del lavoro, soprattutto fra i più giovani.

Di “Great Resignation” (Grandi Dimissioni) avevamo parlato in questo articolo. Un fenomeno, quello delle dimissioni massicce, che si è sviluppato nel periodo dell’emergenza pandemica perché, in quel tempo sospeso e drammatico, molte persone hanno ricentrato i propri valori, in primis quello della vita privata e del work life balance, mettendo al primo posto nuovi desideri e aspirazioni. Una recente ricerca dell’agenzia internazionale per il lavoro Randstad ha messo in luce che, a guidare le scelte dei lavoratori non sono più solo carriera e retribuzione (che ancora hanno un ruolo centrale), ma il “work life balance” ovvero la sostenibilità del lavoro e della vita privata, la flessibilità e il benessere inteso in senso ampio.

Ma da un po’ di tempo, soprattutto sui social, si sente parlare anche di “Quiet Quitting”, alla lettera “Abbandono Silenzioso”. In realtà, anche se la traduzione potrebbe farlo pensare, non indica un fenomeno legato alle dimissioni, ma un nuovo approccio al lavoro diffuso in particolar modo nella Generazione Z che si focalizza sulla ricerca di benessere e di equilibrio e di contrasto del burnout.

La scorsa estate l’hashtag #quietquitting lanciato su Tik Tok da Zaid Khan, ingegnere ventenne di New York, ha raggiunto in pochi giorni 9 milioni di visualizzazioni. Sui social media il dibattito e l’interesse aumentano insieme al desiderio condiviso di slegare la propria identità dalla carriera professionale.

«Anziché tirare fino a tardi in ufficio il venerdì, impegnarsi nell’organizzazione di iniziative di team building o proporsi volontariamente per l’affiancamento delle persone appena assunte, i sostenitori del quiet quitting rifiutano la cultura della smania del lavoro e si limitano a svolgere soltanto le mansioni a loro richieste» ha scritto il quotidiano inglese The Guardian.

Ma se è chiaro che una cultura del lavoro da burn out (“Hustle Culture”) non fa bene né ai lavoratori né alle aziende, l’approccio del quiet quitting è rischioso perché in alcuni casi può tradursi anche nell’evitare comportamenti di semplice cooperazione magari non strettamente legati alla propria mansione e non espressamente richiesti dai propri capi, ma fondamentali in qualsiasi attività di gruppo e nella costruzione di un clima lavorativo positivo. E nessuna azienda può evolversi e innovare senza collaboratori proattivi.

E così, insieme alle preoccupazioni per questo nuovo fenomeno, nel web si diffondono anche le soluzioni degli esperti che propongono ai datori di lavoro di moltiplicare “le azioni di employee engagement per disincentivare i processi di allontanamento dall’azienda”, come corsi di formazione mirati e costanti, comportamenti che dimostrano fiducia e valorizzazione dei dipendenti, orari che garantiscano flessibilità.

Lo scenario economico non è tuttavia il più adatto per aiutare le aziende a contrastare il fenomeno e non manca di rimarcarlo il quotidiano The Guardian: “Le aziende illuminate stanno progettando posti di lavoro che diano ai dipendenti controllo, orgoglio per il proprio lavoro e un salario equo, ma questi sforzi sono minati dalla crisi del costo della vita”.

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